[…] La rivoluzione è diventata impensabile ed inimmaginabile proprio quando è ormai necessaria. L’immaginario politico occidentale da circa due secoli ruota intorno al concetto di rivoluzione, dando infatti luogo ai due campi simbolici complementari dei rivoluzionari e dei contro-rivoluzionari. I fatti del triennio 1989-1991, hanno inaugurato in Europa un’epoca che ha abolito il concetto di rivoluzione, identificato o con i fiumi di sangue dei fanatici o con le code per comprare salsicce e carta igienica. Solo uno sciocco privo di spirito dialettico poteva però pensare che l’abolizione della rivoluzione dall’immaginario sociale non comportasse anche conseguenze telluriche nella cultura complessiva. Molte proposte politiche, oggi, non incitano più alla rivoluzione (come hanno fatto per quasi un secolo i movimenti comunisti e neo-fascisti), ma ad una sorta di “conversione”. Pensiamo ad esempio alle recenti conferenze italiane di Serge Latouche, il profeta della decrescita. Latouche, con tutte le sue palesi buone intenzioni, non è in grado di chiarire in che modo possa iniziare a livello mondiale un processo equilibrato e democraticamente controllabile di decrescita e si limita a spiegare le ragioni per cui sarebbe auspicabile. In questo modo, di fatto, il suo discorso diventa religioso, simile a quello che fa Ratzinger, quando esorta a convertirsi. Del resto, non è certo la prima volta nella storia in cui l’eclissi di una prospettiva rivoluzionaria comporta il passaggio ad una generalizzata esortazione alla conversione. E’ invece la prima volta che sembra imporsi nella coscienza sociale una vera e propria irrappresentabilità del mutamento. In un esame comparato della storia mondiale nelle varie epoche, il mutamento mi è sempre sembrato costantemente rappresentabile. Un popolo era dominato da un altro e pensava, progettava o sognava di come liberarsene. Si potrebbero fare molti esempi di questo tipo, ma tutti arriverebbero alla conclusione del mantenimento di una prospettiva di uscita da una situazione ritenuta negativa.[…]
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Da Preve spesso mi dividono le conclusioni di politica spicciola che tira, mentre molte delle mie premesse sono sviluppate a partire dal suo pensiero e dai suoi autori di riferimento. Auguro ogni bene a questo vecchio professore.
Dimitri D’Andrea, con premesse nella sostanza opposte alle mie, si esprimeva così sull’ argomento in questo post:
https://altrecorrispondenze.wordpress.com/2012/06/30/la-politica-della-sazieta-d-d-andrea/
“L’avvento di un’immagine del mondo in cui l’accadere storico è sottratto ad ogni telos e ad ogni significato è qualcosa che eccede il semplice declino di un’utopia, l’abbandono di un sogno di emancipazione che peraltro aveva già esibito con tutta evidenza il volto di Medusa di regimi politici totalitari e di società dell’ineguaglianza. Fine delle grandi narrazioni non significa soltanto fine del comunismo, significa nominalismo radicale, assoluta singolarità degli eventi storici e assenza di un piano in cui le tendenze e le logiche oggettive dei fenomeni realizzino, sostengano, offrano opportunità per finalità dotate di senso. L’accadere come infinità priva di senso, l’intrascendibilità del mondo in cui viviamo: in una parola l’assolutismo della realtà[9]. ”
e continuando il discorso, Alessandro Monchietto scriveva:
A che cosa è dovuto tale «deserto della critica»? E come lo si può combattere? Per rispondere a queste domande partirei da un presupposto piuttosto banale: le immagini del mondo perimetrano un orizzonte di possibilità. È l’immagine del mondo che spiega e organizza l’esistente, che seleziona e delimita i confini di ciò che rientra nel nostro raggio d’azione
https://altrecorrispondenze.wordpress.com/2012/05/22/la-fatale-immagine-del-mondo-a-monchietto/#more-25786288
“I fatti del triennio 1989-1991, hanno inaugurato in Europa un’epoca che ha abolito il concetto di rivoluzione, identificato o con i fiumi di sangue dei fanatici o con le code per comprare salsicce e carta igienica. Solo uno sciocco privo di spirito dialettico poteva però pensare che l’abolizione della rivoluzione dall’immaginario sociale non comportasse anche conseguenze telluriche nella cultura complessiva. Molte proposte politiche, oggi, non incitano più alla rivoluzione (come hanno fatto per quasi un secolo i movimenti comunisti e neo-fascisti), ma ad una sorta di «conversione».”
A pensarci bene anche Preve incita spesso nei suoi articoli ad una conversione: alla creazione di un fronte popolare che collabori con i capitalisti imperialisti italiani per la difesa degli interessi nazionali, dell’indipendenza politica e sovranità nazionali, che per lui oggi sono essenziali e qualsiasi altra cosa dividerebbe il popolo. Discutere degli interessi delle potenze che controllano i paesi africani e degli interessi delle multinazionali europee dividerebbe il popolo, ad esempio. Secondo Preve soltanto l’establishment militare americano rappresenta una minaccia contro l’integrità della sovranità nazionale degli stati, e infatti suggeriva che se le imperialiste Francia e Germania aspirassero a un ruolo più significativo nella strategia di dissuadere l’imperialismo americano, sarebbe una cosa buona.
Per me invece Paesi come la Francia e la Germania non possono rivestire un ruolo positivo che consista nel compito di guida e di orientamento politico nel mondo attuale. Avendo provato a conoscere la natura di TUTTE le forze in gioco (economiche, politiche, morali, culturali), direi che sul teatro mondiale andrebbe sfidato il capitale occidentale e i loro Stati nazionali, TUTTI.
E per quanto riguarda l’essere pronti ad identificare il concetto di rivoluzione o con i fiumi di sangue dei fanatici o con le code per comprare salsicce e carta igienica e il capitalismo “democratico” occidentale con il male minore, questo serve probabilmente a misurare l’impatto “coloniale” attuale sull’immaginario collettivo occidentale. Coloro che identificano il concetto di rivoluzione o con i fiumi di sangue dei fanatici o con le code per comprare salsicce e carta igienica e il capitalismo “democratico” occidentale con il male minore, dovrebbero essere avvisati sulle relazioni internazionali nell’età dell’imperialismo del secondo dopoguerra e sui processi di sviluppo economico e sociale a livello mondiale fino al triennio 1989-1991. Ad esempio potrebbero riflettere sull’Est quasi-socialista e l’Ovest parassita sul corpo del Sud:
http://nocturnalprivatecares.blogspot.ro/2012/09/lest-quasi-socialista-e-lovest.html
E sul dominio del modo capitalistico postbellico, che aveva tre continenti che gli fornivano il proprio super-plusvalore:
http://nocturnalprivatecares.blogspot.ro/2012/10/il-dominio-del-modo-capitalistico.html
-sull’ immagine del mondo e la rappresentazione del conflitto:
avevo scelto di pubblicare queste brevi frasi – ed in particolare quella enfatizzata in corsivo,stralciate dal ben più lungo dialogo Tedeschi-Preve- perchè il tema della irrappresentabilità della totalità del mondo, e quindi del suo conflitto, mi pare centrale, nel senso che una reale più elevata sintesi sociale dovrà essere prima prefigurata, poi configurata e solo in ultimo potrà rifigurare profondamente la prassi sociale odierna.
questo movimento ovviamente non è mai totalmente separato e avulso dal nostro presente, ma quello che avverto è che la sensazione di insensatezza del nostro quotidiano è almeno pari alla sensazione di non avere alcuna via d’uscita. Benvenga allora un pò di dialettica e metafisica del pensiero classico, equilibratamente intese e corrette alla luce del pensiero successivo (marx, heidegger, lukacs, horkeimer ecc).
probabilmente tutta la questione della narrazione è mal posta, quando si pensa alla presenza, già valutata come ingombrante, della narratività del (proprio) mondo come elemento normativo-trascendentale-finalistico (nelle varianti positiviste,necessaristiche, deterministe, storiciste oppure teleologiche).
Narrazione non credo sia sinonimo di “finale già scritto, felice o drammatico”, ma di senso storico dell’ esserci qui ed ora, dell’ attrito e dello stare innanzi tra soggettivo e oggettivo, dello sforzo ricorsivo ed eterno di ricondurre il particolare frammentato ad una dialettica con l’ intero, in maniera interlocutiva ma non corrispondente ad un evoluzionismo (che sfocia nell’insensato della immanenza purificata dall’elemeto storico-sociale) od alle escatologie religiose (dove il senso è estraneo all’uomo), tesi dove si dilata oltremisura e alternativamente o l’ elemento oggettivo-ontologico o quello soggettivo-relativista.
ma, appunto, qui sta la novità: l’intero è l’intero mondo, non solo l’occidente, e ricondurre il globo ad una sintesi narrativa (artistica, filosofica o religiosa) appare del tutto prematuro: troppo freschi di globalizzazione perchè si possa già sviluppare una comunanza di riferimenti simbolici, che non siano il feticismo delle merci o l’ alienazione unidimensionale veicolate dalla prassi economica. Ma le istanze profonde della storia salgono sul carro che si offre loro in quella specifica epoca, qualcosa succederà comunque.
a Maria-Cristina
scusa, ma quando in un commento ci sono link, wordpress lo mette automaticamente in coda di moderazione
-conversione personale e sociale
non solo, Preve a volte auspica anche un riorientamento gestaltico personale che, lungi dall’ essere un cambiamento di look interiore, si rifà ad una maggiore e più attenta comprensione dialettica dei fenomeni storici, a partire da quelli più antichi, quelli etico-religiosi, che hanno la caratteristica di essere ancora oggi spacciati come oscurantismo sociale oppure rivenduti come pacificazione e adattamento individuale. La schizofrenia del dominio. Più razionalmente direi che l’auspicio previano si rivolge non ad emendare da sè l’errore del passato, ma a tenerne conto e a rivitalizzarlo all’ interno della attuale assente dialettica fra comunità ed individualità.
Il potere oggi appare lontano, sistemico ed anonimo ed impersonale, non ha volto ma ha una prassi: ed è qui che si deve fare largo l’ immagine di una possibilità più conforme a quello che già oggi – potenzialmente e incompletamente – siamo. Quindi concordo con l’invito alla riassunzione della responsabilità personale (contro un certo sociologismo deresponsabilizzante), che può avvenire solo dopo una crescita spirituale e critica che distingua il grano dal loglio, intesa come “palestra” per il ripristino di un punto di vista integralmente umano e di un rivoltamento più complessivo di là da venire, conformemente alla nostra essenza storico-sociale .
-stato e popolo
ho amato in preve la scelta “comunitarista”, che costringe alla ridefinizione profonda di stato e di popolo, ma dallo scoppio della crisi mi pare che la sua posizione sia smottata sempre più in una accettazione acritica della forma-stato e del populismo.
E’ il solito discorso dell’ urgenza di dare risposte immediate a bisogni immediati, e purtroppo l’assenza di una teoria dello stato in Marx (assenza coerente e non casuale, se si va un pò oltre alle frasi sulla estinzione dell’ istituzione statale) ci lascia in balia o della concezione liberale-liberoscambista o della concezione keynesiana-stalinista (in sfumature soft oppure hard, distribuite in Italia in maniera omogenea a destra come a sinistra), entrambe riconducibili però alle esigenze di accumulazione capitalista. Lenin, in Stato e Rivoluzione, non riuscì ad affrontare la questione nella sostanza.
Correttamente Preve nota che l’impotenza delle politiche democratico-redistributive è la crisi di sovranità degli stati nazionali, ma non dimenticherei che la potenza sociale del Capitale non sarebbe cresciuta senza la perimetrazione territoriale su cui esercitare il dominio di classe, e che è l’apparato giuridico vigente che difende i flussi di capitale mediando fra interessi -delle classi dominanti- particolare e generale.
non credo che si possa lasciare indietro questi aspetti in nome di una necessità immediata, pena fare sì dei passi, ma alla cieca.
Concordo pienamente anche con le considerazioni che Preve fa rispetto al proletariato -la classe operaia urbana- e alla sua incapacità di farsi classe universale, che porta Preve a sovrastimare la borghesia “infelicemente cosciente” del passato, che proprio in base alle stesse analisi previane resta impraticabile da riproporre: la coscienza infelice era un particolarismo europeo, un ostacolo che la classe proprietaria deve rimuovere per farsi universale.
A me per esempio interessa una definizione di Stato – di popolo che si autodetermina in comunità- a partire dalla particolarità linguistica, manifestazione di una particolare immagine storica di uno specifico popolo, non esente ovviamente da colonizzazioni e alienazioni, ma che descrive confini e frontiere “morbidi” e aperti al dialogo. Fondamento debolissimo e oggi marginale, mi rendo conto, ma di profondo significato simbolico.
-occidentalismo, terzomondismo, imperialismo
Come te non condivido le prese di posizione a favore dell’ economia sociale di mercato alla europea contrapposta al modello anglo-sassone, ma non condivido neppure l’entusiasmo per la Cina (a cui Preve è estraneo, lo so), il Venezuela o i paesi musulmani. Se è bene che gli schieramenti geopolitici dei dominanti siano rotti in più fronti, indeboliti -ma nella contesa intercapitalistica esistono sempre più fronti perchè ognuno gioca per sè-, non vedo che vantaggio ne viene per cogliere un accenno di possibilità di liberazione dei dominati. Io ho appena pubblicato Amin -nel blog per la terza volta- che nel post specifico coglie un aspetto dell’odierno capitalismo globalizzato che mi premeva sottolineare, ma non condivido affatto il suo terzomondismo e antioccidentalismo, oggi che tutti i paesi sono coinvolti allo stesso modo, seppur in fasi primitive, laterali o declinanti, nel modo di produzione capitalista e quindi nel conseguente conflitto sistemico. In particolare Amin e Jaffe (che vedo pubblichi spesso) in compagnia di tantissima sinistra italiana (Giacchè) sulla Cina stanno prendendo una cantonata colossale, indice di una sindrome antioccidentalista ancora molto diffusa.
Da quello che mi è riuscito capire, mi sono formato una visione prospettica un pò diversa di come si esplica attualmente l’imperialismo, senza negare i vecchi metodi coloniali direttamente bellici o golpisti, o l’ indiretto esproprio economico del super-plusvalore, ancora in uso. Daccordo, c’è stato lo schiavismo, il colonialismo, l’imperialismo dei capitali e dei monopoli, oggi si aggiunge quello dello sviluppo -tecnologico- ineguale, della disparità di dotazione di capitale costante, corrispondente a produttività diverse del lavoro sociale medio, al netto dei ceti improduttivi e parassitari mantenuti a valle dei processi produttivi. Il tipico esempio è l’ azienda che mantiene i propri laboratori di ricerca e sviluppo in Francia, i segmenti di produzione a media intensità tecnologica li fa’ da sè in Polonia e gli altri segmenti a bassa composizione organica di capitale li appalta in Vietnam. Questo recente metodo di sussunzione del lavoro sociale mondiale dà luogo ad un imperialismo che non corrisponde più esattamente con i confini nazionali, ma rompe gli aggregati nazionali (o continentali) al proprio interno tra chi è pronto a rispondere a questo tipo di esigenza e chi no (la guerra europea tra virtuosi e PIIGS, la padania e il mezzogiorno italiano, la Catalogna e lo stato spagnolo, il nord fiammingo e il sud vallone in Belgio, tutti esempi che nascono non a caso nella culla storica della competitività capitalistica tra stati-nazione)
guardo comunque con interesse alla tua ricerca
Rodolfo Monacelli cita a lungo Preve su “Anticapitalismo, antiimperialismo e questione nazionale” qui
http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/9269-anticapitalismo-antimperialismo-e-questione-nazionale.html
oppure (stesso identico articolo)
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44519
oppure qui
http://www.comunismoecomunita.org/?p=3369
da notare la totale assenza di commenti per una questione così centrale